Mezzi pubblici, storia di un’adolescenza

Sono cresciuto in autobus.

A Napoli erano i tempi dell’ATAN e dei pulmini abusivi che per 1000 lire ti portavano fino alla stazione.

Fino alle elementari niente da dire: scuola sotto casa. Mia madre mi guardava in classe dal balcone. Poi non si è capito più niente

Il primo giorno della prima media mia madre mi ha accompagnato a scuola per un tragitto che mi è sembrato infinito. E poi mi ha pazientemente aspettato fino all’orario di uscita. Così siamo tornati a casa facendo i 10 km dell’andata a ritroso. Da una parte all’altra della città.

Allora gli autobus percorrevano ancora tutta via Roma e io poi prendevo la funicolare centrale. La cosa mi è piaciuta, io che ero vissuto in un quartiere fazzoletto come Porta Piccola a Capodimonte scoprivo che esisteva una città oltre il Bosco.

Il secondo giorno stessa cosa, solo che arrivato a scuola mia madre mi dice: Ok. Oggi torni da solo. Ci vediamo a casa. Non fare tardi.

Io – panico. Da lì però è iniziata un’avventura che non è mai finita. Mia madre aveva ragione: mi è servito assai.

Sugli autobus impari a vivere e io che ero un vero soggetto e conoscevo poco Napoli e tantomeno il napoletano, piano piano ho imparato: ho appreso come salire a bordo aggrappato a qualunque centimetro di appiglio, ho appreso i rudimenti della fisica per non fare aprire le porte che mi avrebbero schiacciato una volta salito. Ho testato le basi della meccanica per imparare ad aprire le aperture di sicurezza e potere correre a prendere l’autobus intravisto in lontananza. Ho fatto miei i rudimenti della psicologia comportamentale per capire quando qualcuno di preparava a lasciare un posto a sedere e ho testato tecniche estranianti una volta seduto.

Dal Regresso (mitica fermata dopo il Bosco) arrivavano tutti i “mezzi” utili. Vetture vecchie e sgangherate ma tutte con un proprio carattere.

Eh sì perché a Napoli anche gli autobus sono dei personaggi. Il 109 nero (citato dal vate Tony Tammaro) e poi diventato R4, il 135 rosso/sbarrato che andava “alla Stazione”. Il 22 che veniva da via Miano, il 24 dai Ponti Rossi, il 118 al corso Vittorio Emanuele o il 105 rosso, una specie di bus fantasma che andava alla Sanità ma che ho visto 3-4 volte in tutto. Le prime volte mi sono seriamente chiesto se avrei mai imparato a destreggiarmi tra tutte quelle strade. Quelle salite e discese e poi scale e scaloni. Ovunque a Napoli.

Per andare e tornare da casa mia esistevano almeno tre itinerari diversi a seconda dei diversi livelli della città ma in alcuni giorni, come il sabato a pranzo, c’era il delirio e arrivati al Museo Nazionale in alcuni casi era meglio farsela a piedi. Ed è successo diverse volte perché a Napoli non c’è solo traffico, a Napoli “stà tutto bloccato”. E non è un modo di dire.

Questo “viaggiare” mi ha quindi insegnato ad essere paziente ma mi ha pure parecchio svegliato dal bambino che ero. Accompagnarmi a scuola non esisteva né in cielo né in terra e prendere un taxi a casa mia era visto come pensare di andare in elicottero. Quindi i primi anni da super ansioso quale ero mi svegliavo all’alba e arrivavo a scuola anche alle 7,00(!) e poi aspettavo si facessero le 8,30.

Uno sfigato insomma.

Ero così timido che per un periodo in prima media, non conoscendo il mio nome, alcuni bambini mi chiamarono Valentino e non ricordo neanche il perché, ma io non parlavo e quindi andava bene così.

Ma poi per sopravvivere ho iniziato a parlare e man mano che ho imparato le strade e ho sfruttato meglio la situazione la musica è parecchio cambiata. Avevo massimizzato i tempi e arrivavo a scuola in 25 minuti netti.

Al terzo anno ero finalmente abbastanza smaliziato così quando la vicepreside per una giustificazione mi guardò e mi chiese: “ma tanto tu sei maggiorenne no?” quel diabolico “certo!” che mi è uscito dalla bocca è stata la cosa più naturale del mondo e mi ha garantito, per oltre due anni, entrate e uscite senza alcun tipo di problema in ogni orario.

C’è da dire che di problemi ad entrare e uscire dalla mia scuola non ce ne sono mai stati. Ad una certa ora si faceva la lista delle cose da mangiare e si scendeva in delegazione all’elettroforno Catania a comprare trecce zuccherate e brioches bollenti al cui interno inserire barrette di kinder cereali che fondevano a meraviglia. Il solo ricordo mi fa venire l’acquolina in bocca.

Certo tutto questo andare e venire in autobus aveva controindicazioni. Quando alle 3 del pomeriggio i miei compagni iniziavano a studiare io ero appena arrivato a casa. E prima delle 5 per me non se ne parlava.

Eppure mi ha regalato anche tanta indipendenza. Gli autobus notturni mi hanno consentito di sfruttare i soldi che ricevevo dai miei genitori – quantificati nel costo di un taxi per ogni fine settimana – per uscire con gli amici e avere un minimo di margine. A casa di molti di loro ho letteralmente vissuto e a loro e ai loro genitori va la mia imperitura riconoscenza.

In più con i mezzi notturni, fino a quando non ho recuperato la gloriosa 500 giallo senape, ho potuto girare e frequentare persone di altri quartieri e di altre scuole quando la mia ormai sembrava andarmi stretta.

E così oggi le lunghe passeggiate da Mergellina alla Questura e poi le ore seduto tra Architettura e piazza Dante ad aspettare il maledetto 460 – che puntualmente saltava la corsa delle 2 di notte – mi appaiono più dolci e soprattutto molto meno fredde.

PS: Io continuo ad andare in autobus e, manco a dirlo, sono ancora ansioso e pure un po’ sfigato.

Un pensiero ad Alessia e a M. Francesca che per tanti anni hanno condiviso con me tattiche di sopravvivenza che manco i Navy Seals…

Una scelta di campo


Una giovane coppia che inizia a frequentarsi si imbatte in diverse prove, al cui confronto le fatiche di Ercole sono una passeggiata di salute. Angherie belle e buone volte a scoraggiare il malcapitato oppure, semplicemente, a valutarne motivazioni e risolutezza. 

Un primo vero test è “l’uscita” (pizza, cinema, aperitivo) con gli amici quando, tra gli altri, conosci la migliore amica. Che di solito è una sadica stronza ossessivo-compulsiva. Con sorriso modello Bestia di Satana te ne farà passare di cotte e di crude per testarti più di quanto si riserverebbe a una cavia da laboratorio, per poi dare il suo nulla osta con un gesto di malcelata sufficienza. 

Tutto questo mentre tu sorridi dolcemente per mantenere il tuo ruolo di uomo perfetto. 

Superata questa prima scrematura, il fidanzato modello si scontra con la cena coi colleghi, di solito nel periodo natalizio. Tavolate di esauriti, urlanti e ubriachi (dopo appena un sorso di vino) che rivolgono al malcapitato domande imbarazzanti alternate a barzellette spinte a cui, beninteso, non sai mai se devi o puoi ridere e soprattutto fino a che punto. Di solito il “carico da 11” lo mette il (o la) capoufficio che ti sottopone ad un vero colloquio di lavoro, finalizzato però non certo alla tua assunzione, quanto più al concreto rischio di licenziamento e sevizia del tuo compagno. 

Anche lì uno stress pazzesco. 

Superati i primi due stadi si passa al conoscere la famiglia. È qui che scatta il temutissimo pranzo coi parenti, in primis con i genitori. 

In questo caso si parte con la presentazione modello: Papà, questo è Giulio… panico senza manco i sofficini a stemperare la questione, fino alle 1000 sfaccettature di Ti presento i miei, Sfigatto compreso. 

Le aspettative di vita della coppia in questa circostanza si assottigliano drasticamente. 

In questi casi il malcapitato assiste a un’ordalia di pazzoidi tra zie che ti danno dolorosissimi pizzichi sulle guance e mariti che ti caricano il piatto all’inverosimile per vedere se alzi un sopracciglio. Completano il quadro il suocero che ti guarda con evidente compassione perché sa a cosa vai incontro e la suocera, che invece si diletta a studiare le tue fattezze e il modo in cui fai onore alla tavola mentre stringe in una mano il Galateo e nell’altra l’ultimo compendio di Lombroso. 

Risultati devastanti garantiti. 
Ma poniamo caso che, per qualche scherzo del destino, la coppia sia sopravvissuta e abbia pure superato magari il corollario di ex-fidanzati che immancabilmente tornano (oppure sono sempre stati lì, vai a capire). 

Dopo tutte queste forche caudine, senza saperlo, i fidanzatini vanno incontro ad una forma di selezione naturale. Solo dopo questa prova la coppia può dirsi davvero solida: la domenica da IKEA! 
Se qualcuno ha mai pensato che l’educazione dei figli determini uno dei massimo stress nella coppia beh, questo qualcuno non ha mai passato una giornata con il proprio compagno nel magazzino svedese per comprare “due sciocchezze”. A partire dal traffico e dal parcheggio, fino ad arrivare alla scelta di centinaia di utensili e stoviglie, sedie, divani, armadi e librerie Billy, centinaia di candele profumate… tutto questo scava a fondo nel rapporto a due, affondando gli artigli negli angoli reconditi del nostro inconscio, giù giù fino ad arrivare al quesito più dirimente. Una vera e propria scelta di campo, davanti alla quale si dice che addirittura Gianni Morandi e sua moglie Anna, in passato, abbiano avuto un momento di crisi. 

Cosa abbinare a pranzo alle polpette di Ikea: purea di patate o marmellata di mirtilli??? 

Disastro

Ponza, il confino, la Bella e la Bestia

 

Chi ama il mare non può che amare le isole. Piccole o grandi che siano chi le abita è parte di una realtà che difficilmente ammette commistioni. Prendendo in prestito ed estendendo Mazzei possiamo facilmente parlare di particolarismo insulare. 

La loro condizione le ha rese in passato luogo ideale per mille esperimenti, dalla culla/incubatore di civiltà fino alla destinazione remota dove confinare personalità scomode. 

A Ponza, ad esempio, è stato confinato Pertini ed io, consapevole che non sarei riuscito mai ad avere altro in comune con quest’uomo eccezionale, mi ci sono auto-confinato in questo fine settimana. 

Premetto che non facevo mare da quasi 3 anni e quindi il solo potermici affacciare è stato meraviglioso, ma devo dire che sono stato davvero bene. E questo grazie a chi mi ha dato suggerimenti ma, soprattutto, grazie a chi mi ha accompagnato. 

Ponza dunque isola magica? 

Forse no, ma di certo isola vivibile e a misura d’uomo. Anzi, più ancora, a misura di adolescente. 

Sciami di ragazzini e ragazzine dai 16 ai 45 anni (!), in giro per locali e localini riempivano le arterie principali del porto per la comprensibile gioia dei commercianti locali e la costernazione di tutti gli altri, me compreso. 

Una specie di zona franca, dove chi sbarca crede che parecchio gli sia concesso. 

L’extra territorialità. Sembra questo, negli ultimi anni il ruolo in cui molte isole si sono relegate. Sia essa finanziaria, politica o sociale, come in questo caso, poco importa. 

Sull’isola i “novelli pirati” arrembanti dai loro yacht si permettono cose che a casa loro non si sognerebbero mai di fare. Ma sull’isola di sentono padroni perché, come ho sentito dire più volte, portano soldi. Ogni commento mi pare superfluo. 

Torniamo a noi: Vista anche la festività di San Pietro e Paolo, patroni di Roma, bisogna dire che l’isola era gremita in ogni ordine e grado delle strutture ricettive. Eppure, anche se non regalata, siamo riusciti a recuperare una sistemazione dignitosa in un B&B. Il cui nome non farò per scelta, ma che ha rappresentato parecchio del divertimento della vacanza. 

Posso solo dire che la struttura era molto prossima al porto e godeva di una terrazza con una vista eccellente, soprattutto al tramonto. Il tutto gestito da un orso bonaccione e da sua figlia Francesca, prova vivente che il miglioramento della specie non solo è un dato di fatto, ma che a volte si ottengono persino risultati prodigiosi, che tuttavia richiedono anche molto, molto coraggio. 

Le esilaranti dinamiche tra i due, che avevano ben poco da invidiare a Casa Vianello, hanno colorato questi tre giorni e reso la vacanza, oltre che rilassante e saporita (sull’isola si mangia davvero bene) anche divertente. 

In fine una menzione speciale per Francesco, il Fauno. Una persona splendida che spero di incontrare di nuovo se mai riuscirò a tornare a Ponza. 

Grazie a tutti e alla mia metà. 

Expo 2015 – Fuga da Milano

  

Milano, la città che ha fatto del suo nome un brand, oggi – primo maggio e giornata inaugurale di Expo 2015 – invece appare come il set di uno scenario post atomico.

Un deserto, grigio di cemento e nudo di persone. Strade vuote, metro vuota, esercizi chiusi, serrande abbassate, cani zero. 
La sensazione, complice il tempo inclemente, non è quella di una giornata di festa, lenta di una calda e pigra sonnolenza. Quanto più quella grigia di un’afflizione disincantata
Alla stazione di Porta Garibaldi alle 10 del mattino è ancora tutto chiuso, tranne un bar. Unici popolanti le forze dell’ordine. Polizia e Carabinieri sono schierati in notevole quantità, seppure in divisa e non in tenuta antisommossa. 
Una presenza massiccia, pensata però più per scoraggiare e mostrarsi in una sobria eleganza, che per intervenire e sporcarsi le mani. 
Ovunque, dagli edifici alle metro, dalle stampe sulle confezioni agli spot in TV, ogni cosa rimanda ad Expo. La sensazione di una campagna così totalizzante però, non è quella di una gioiosa promozione commerciale, quanto più quella strisciante di qualcuno che ci ha messo la faccia e che adesso ha paura che questo baraccone miliardario possa infine rivelarsi un flop, mostruoso. 
E così, tra un “cappuccio” e una “brioche”, nella giornata in cui tutti, pare, debbano arrivare in città (perché al momento non c’è nessuno), NOI saliamo in treno e ce ne torniamo a casa, all’Esquilino.
Buon primo maggio a tutti!