Capire le persone che ci stanno vicine è una missione. Saperle ascoltare, mettere da parte noi stessi per riuscire a fare proprie le categorie altrui e comprenderne le logiche e il ragionamento, richiede tanta buona volontà ma soprattutto affetto. E lo so che ci sono fior fiori di professionisti che lo fanno senza lasciarsi coinvolgere emotivamente. Ma io non ne sarei capace. Non a caso faccio un altro mestiere.
Il mio è chiaramente un limite. Eppure credo di non potere capire davvero una persona se non le voglio davvero bene. E non basta un affetto accondiscendente. Quello va bene per le persone a cui sono affezionato, oppure che mi hanno profondamente deluso. È come se, anche nell’amicizia, io avessi bisogno di un affetto “passionale”. Io ho bisogno di emozionarmi quando guardo una persona a cui voglio bene. E, quando la ascolto, questa persona deve essere in condizione di farmi provare qualcosa, devo sentirla vicina, arrabbiarmi a volte. Oppure commuovermi, fin quasi a piangere.
Devo anche dire che conoscere le persone non è – e non può essere, nel mio caso – a senso unico. Io ascolto e capisco nella buona misura in cui gli altri sono liberi di conoscermi e io essere me stesso con loro. È la base di ogni rapporto. Sennò non si va da nessuna parte. Il problema sta nel fatto che più una persona mi conosce, tanto più io divento vulnerabile. E questo è un qualcosa che accetto molto di rado. Ho messo poche persone nella condizione di farmi del male e quando ho dovuto pagarne le conseguenze mi sono ripreso a stento.
Quindi non me ne voglia nessuno se normalmente tengo chiusi alcuni cassetti con la doppia mandata o voglio evitare di riempirne altri, ma per alcune cicatrici non bastano i punti