Calzini a strisce

Capire le persone che ci stanno vicine è una missione. Saperle ascoltare, mettere da parte noi stessi per riuscire a fare proprie le categorie altrui e comprenderne le logiche e il ragionamento, richiede tanta buona volontà ma soprattutto affetto. E lo so che ci sono fior fiori di professionisti che lo fanno senza lasciarsi coinvolgere emotivamente. Ma io non ne sarei capace. Non a caso faccio un altro mestiere.

Il mio è chiaramente un limite. Eppure credo di non potere capire davvero una persona se non le voglio davvero bene. E non basta un affetto accondiscendente. Quello va bene per le persone a cui sono affezionato, oppure che mi hanno profondamente deluso. È come se, anche nell’amicizia, io avessi bisogno di un affetto “passionale”. Io ho bisogno di emozionarmi quando guardo una persona a cui voglio bene. E, quando la ascolto, questa persona deve essere in condizione di farmi provare qualcosa, devo sentirla vicina, arrabbiarmi a volte. Oppure commuovermi, fin quasi a piangere.

Devo anche dire che conoscere le persone non è – e non può essere, nel mio caso – a senso unico. Io ascolto e capisco nella buona misura in cui gli altri sono liberi di conoscermi e io essere me stesso con loro. È la base di ogni rapporto. Sennò non si va da nessuna parte. Il problema sta nel fatto che più una persona mi conosce, tanto più io divento vulnerabile. E questo è un qualcosa che accetto molto di rado. Ho messo poche persone nella condizione di farmi del male e quando ho dovuto pagarne le conseguenze mi sono ripreso a stento.

Quindi non me ne voglia nessuno se normalmente tengo chiusi alcuni cassetti con la doppia mandata o voglio evitare di riempirne altri, ma per alcune cicatrici non bastano i punti

Gomorra me genuit, Suburra me rapuere

 

Vivo a Roma da dieci anni. Una città che, seppure coi miei tempi, ho imparato ad amare. E tuttavia in questi anni ho assistito ad una sua involuzione, letta da molti come un’indicibile decadenza. 

Ma prima devo fare un passo indietro, perché non è qui che sono cresciuto. 

Sono nato in un palazzo sui colli in “capo al monte”, dove una volta c’era una stanzetta che allora mi sembrava grandissima. Il palazzo, situato in un curvone, al passare dei mezzi pesanti ballava come l’albero maestro di un brigantino. 

Con gli anni la stanzetta è diventata progressivamente più piccola, ma mai angusta, e anche la sua popolazione è raddoppiata, forse in omaggio a Poggioreale. 

Si è arricchita di poster, foto, manifesti, bandiere, quadri e cartoline. Impianto stereo, libri, fumetti, armadio e scrivanie. Anche il letto si è rimpicciolito. E anche quello ha avuto ospiti, di tanto in tanto. 

Solo una cosa è rimasta pressoché la stessa: Il paesaggio. Una reggia nel verde, da un lato, una certosa e un castello dall’altro. In mezzo il mare, un vulcano e un’isola lontana. 
Sotto i miei occhi una città che, forse per paura del Vesuvio, non ha mai avuto la velleità di essere la Città Eterna, ma che è capace del miracolo di morire e rinascere ogni giorno. 

Napoli è dove sono nato ed è questo luogo che mi ha forgiato nella violenza delle sue contraddizioni. Vivo Suburra ma Gomorra mi ha insegnato quello che so. 

E anche se capisco che è assurdo accostare le due città, forse il punto è questo: Napoli con tutti i suoi terribili difetti precipita in un abisso da oltre cent’anni ma è capace di restare sempre se stessa. In un equilibrio indolente che è insieme la sua virtù e la sua più grande condanna. 

E Roma? A volte temo non sia pronta. Ho paura che la sua bellezza e il suo essere centro di potere l’abbiano tutelata per secoli, come un genitore fa con il figlio piccolo, ma che qualcosa adesso sia cambiato. 

A lei un in-bocca-al-lupo di cuore. Perché oggi ne ha bisogno e perché, se Dio vorrà, un giorno è qui che cresceranno i miei figli. 

(CREPI!)

 

Ho fatto pace con Roma

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Sono arrivato a Roma con un sogno nel cassetto e l’idea di restarci solo 2 giorni a settimana. Lo stretto necessario per un breve master. Avevo finito gli studi e, nn avendo arte né parte, Napoli nn mi dava grandi prospettive già allora – pre crisi.
Il tempo è passato in fretta e i 2 giorni iniziali sn diventati 3 di tirocinio spalmati su 4, e ben presto 5 lavorativi. Le cose hanno iniziato andare parecchio male ma almeno mi iniziavano a pagare.

Quei soldi hanno rappresentato una prima forma di indipendenza eppure nn sn stati facili. Il fine settimana infatti tornavo a casa e nn volevo mai parlare di Roma o del mio lavoro. Napoli è presto diventata un rifugio denso di amici e famiglia. Un luogo dove ero sempre felice e in vacanza. Bella, bellissima. Di Roma nn sapevo nulla perché ne scappavo appena possibile. Per me rappresentava solo lavoro e frustrazione e con lei i romani che, pur senza avere nessuna colpa effettiva, ai miei occhi avevano le loro responsabilità e meritavano al massimo la mia indifferenza.

C’è voluto oltre un anno e mezzo di fatica perché le cose andassero meglio e io e il mio lavoro prendessimo le “misure”. E se io sn stato abbastanza tenace da nn mollare un datore di lavoro che mai più avrei voluto abbandonare, c’è da dire che Roma e i romani (le mie amate colleghe) hanno avuto una gran parte in questo cambiamento di prospettiva.
Certo hanno le loro peculiarità, ma da questo punto di vista anche i napoletani nn scherzano. A differenza di questi, però, i romani hanno una cultura inclusiva. Mazzei avrebbe detto universalista, diametralmente opposta al particolarismo napoletano. Una cultura abituata ad accogliere popoli e culture da oltre 2000 anni. E questa meravigliosa caratteristica, spoglia da velleità imperialiste, sopravvive ancora oggi.

E così, tra un Marchese del Grillo, una Febbre da Cavallo, un Romanzo Criminale, un concerto di Mannarino e una miriade di esilaranti detti popolari, ho fatto pace con Roma e credo che questa dovrà sopportarmi ancora per parecchi anni a venire.
Eppure, anche se ormai vivo a Roma da dieci anni, nn divorzierò mai da Napoli.
So che Roma mi capirà.

PS: Grazie ai napoletani che vivono a Roma (specialmente 3-4 della prima ora) che mi hanno sempre fatto sentire a casa.
Adesso però cominciate ad essere un poco troppi! Ma una casa nn la tenete???

Grandezz’ e Dio!

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È proprio vero che a volte basta poco per essere felici. Non c’è bisogno di avere, comprare, viaggiare o comunque dilapidare fortune. A qualcuno, a volte, basta davvero poco. E questo non perché non sono ambizioso o non voglio “il meglio dalla vita”. Ma semplicemente perché le cose belle non hanno bisogno di essere anche complicate.
Vado al caso di specie: A me basta il MARE.
Attenzione: non un lago, non un fiume, neppure una mega piscina con tantissima schiuma e miriadi di paperelle gialle, ma il mare: grande, azzurro, salato. Io quando lo vedo, quando ne respiro anche solo l’odore, sono felice.
Può essere giorno o notte, estate o inverno, tempo bello o brutto ma davanti a lui io mi tranquillizzo e quello che mi sta intorno appare più bello.
Capirete la mia difficoltà nel vivere in una città magnifica come Roma ma con questo ingombrante peccato originale: il mare non c’è!!!
Sì, il lido di Ostia fa parte del Comune (credo sia una municipalità)… come no!? Come a dire che Catania è in montagna perché è attaccata all’Etna… Siamo seri…
Eppure alla fine della Cristoforo Colombo, dopo gli infernetti invece di scoprire le indie, trovi una rotonda ed alcuni cancelli e capisci che, seppure con una certa difficoltà, al mare anche da Roma, ci si arriva. In effetti c’è un punto di questa lunga strada passato il quale si scollina e comincia ad arrivare un po’ di brezza marina. Bene, è a quel punto che sulla mia stupida faccia si stampa un sorriso ebete perché capisco che manca davvero poco, che ci sono quasi e tra poco lo vedrò. Certo, non sarà quel colpo al cuore che ti strega ogni volta quando vedi il porticciolo di Carloforte “epperò” è sempre una sensazione stupenda. Una via di mezzo tra l’infinito di Leopardi e il sublime di Kant.
A Napoli per riassumere direbbero: Grandezz’e Dio!