Apologia del trenino. O quasi

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Premetto che ho sempre amato viaggiare in treno. Il treno ha in sé una dimensione romantica e quasi fantastica. È un teatro perfetto per un romanzo giallo d’altri tempi, come il mitico Oriente Express, o per una vicenda amorosa tra due sconosciuti.
A differenza di un aereo guardi il paesaggio con una certa calma e puoi quasi toccare i luoghi che attraversi, apprezzarne i mutamenti e l’incredibile varietà, almeno in Italia.
Con il regionale, in primavera e estate, a finestrini abbassati avverti anche i profumi della campagna insieme a quell’odore forte, come di ferodo, dei pasticconi dei freni alle fermate, che fa di certo un male cane, ma che un giorno so già che mi mancherà.

Il treno è lo spaccato perfetto di una nazione. A bordo coesistono spesso i più disparati generi, razze, culture e strati sociali di un paese. Non voglio dire che basterebbe un convoglio a rappresentare uno stato ma di certo può esserne un affresco convincente.
Così il trasporto ferroviario e le sue condizioni possono dire parecchio altro di un Paese. Possono parlarci ad esempio del livello di civiltà, della tolleranza, dell’educazione e del grado di insicurezza che si avverte al suo interno.

In treno non ci si annoia quasi mai. Si riesce ancora a parlare, ovvero ad estraniarsi, a pensare, ad ascoltare musica, a leggere, ultimamente anche a documentare gli improbabili compagni di viaggio commentando in tempo reale con gli amici quello che ci circonda.
Certo capisco anche io che tutto questo sia un lusso e che quando hai poco tempo un treno ad alta velocità per fare Roma-Firenze è utile. Imprescindibile. Soprattutto se devi tornare a Roma in serata.
Ma no, continuo a ripetermi che il trenino regionale è bello, romantico, affascinante e cerco di trovare il lato stimolante del fatto che a Termini te lo piazzino sempre in binari fantasma che ti sembra di arrivare a piedi fino quasi a Latina per salirci, cerco il lato positivo di potere scegliere tra la sauna/bagno turco e il gelo polare sia in estate che d’inverno e soprattutto mi lambicco il cervello per motivare in modo costruttivo i vantaggi di certo insiti in questa sorta di yeti che si è tolta le scarpe e me le tiene sotto al naso da quasi due ore e poi tangenzialmente mi chiedo perché un treno regionale coi finestrini bloccati e senza neppure una presa elettrica impieghi 4 volte il tempo di percorrenza del treno veloce ma costi solo la metà invece di 1/4… Ma di certo ci sarà un ottimo motivo… Solo che al momento davvero mi sfugge!

Comunque crucciarsi per i finestrini bloccati non ha senso. Dopo due ore con questi piedi pelosi sotto di me (tipo Lo Hobbit) ho perso completamente l’olfatto e molte delle mie residue facoltà mentali, temo per sempre.

So’ semp’ nu signore

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Bologna. La prima volta che sn passato dalla stazione e mi sn trovato lo squarcio della bomba nella parete nn avevo idea di cosa fosse.
Avevo 18 anni (avrei dovuto sapere cosa fosse successo) e faceva un freddo cane. Ma a quest’ultima cosa ero stato preparato dai racconti di mia nonna che, bolognese, veniva spedita a scuola previo “bianchino” scolato come fosse ovomaltina. E infatti era diventata mezza alcolizzata.

Per ovviare al gelo di quella notte sono rimasto nella sala d’attesa – riscaldata già allora – oltre due ore, di notte, chiedendomi quale designer fatto di acidi avesse concepito quel varco inquietante, poi murato con tre elementi di cristallo orizzontali.

Mi trovavo in stazione di passaggio. Ero stato a Gorizia per sostenere una sorta di esame e, per fortuna – posso dire adesso – era andato male. In fase di iscrizione avevo conosciuto un simpatico tipo di Conegliano Veneto a cui avevo promesso una stecca di sigarette napoletane e, da uomo di conseguenza, ero arrivato a Gorizia armato di “Mabboro” di contrabbando-ufficiali.

Il tipo però a Gorizia nn lo avevo visto più e così fino a Bologna, nn fumando, avevo regalato sigarette a destra e a mancina.
Arrivato lì avevo scoperto che il primo treno per tornare a Napoli sarebbe partito diverse ore dopo, causa l’interruzione notturna del servizio. Così, insieme ad un gruppetto di ragazzi che come me tornavano nel profondo sud, iniziammo a girare su e giù per la stazione fino a che non ci imbattemmo in una barbona.
La signora era accampata proprio nella porzione di muro lasciato vuoto dalla crepa e, così facendo, poteva tenere d’occhio i suoi effetti personali anche quando si avventurava fuori dalla sala d’aspetto. Era piccola, piccolissima. Il viso era tutto una ruga e i capelli erano raccolti in un’unica compatta liana. Rasta.
Sembrava una tartaruga centenaria. Eppure tutte quelle rughe scomparvero in un solo istante quando mi chiese una sigaretta ed io le risposi d’istinto: “Signora!!! Ma quale sigaretta?!? Io vi do tutta la stecca!!!”

Sono passati tanti anni e non ho più visto quell’anziana barbona ma da allora, ogni volta che passo in treno da qui, cerco quello squarcio.
Quasi avessi con questo un rapporto personale.

Questo post è dedicato a Giovanni Di Dio